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Esplorazioni e colorazioni nel sistema Coralupo-Pelagalli, Dolina dell’Inferno

Nel 2019 le attenzioni del GSB-USB nel territorio Bolognese si sono concentrate prevalentemente alla Grotta del Coralupo (o Grotta Coralupi) e alla Grotta Pelagalli. Alla Coralupo, una proficua disostruzione ha portato a scoperte decisamente interessanti. Ma andiamo per punti.

Dopo una prima serie di uscite mirate a spulciare i canyon sotto al Salone delle Radici alla Coralupi, si è deciso di andare a riguardare gli ambienti vicini all’ingresso in ottica di una possibile giunzione con la Grotta il Castello. Quest’ultima cavità infatti ci risultava occlusa da moltissimi anni, fino a quando insieme a Giorgino Dondi e Michele “Rasta” siamo riusciti a riaprirne l’ingresso e rendere nuovamente fruibile il passaggio. Da qui sono seguite diverse uscite esplorative volte a riguardare completamente la cavità, che in fin dei conti risulta molto gradevole ed assai affascinante, soprattutto il pozzo che porta al fondo. Ahimè tutti i potenziali punti ‘interrogativi’ sono risultati impraticabili o senza particolare interesse, ad eccezione del cunicolo in cui attualmente viene inghiottita l’acqua nella sala centrale, solo accennato nel rilievo storico del ‘92. Questo stretto cunicolo, una volta disostruito, ci ha portato a percorrere una di ventina di metri verso nordovest con forte pendenza, per poi sbucare sul fondo della grotta, dietro un passaggio che risultava occluso da terra e pezzi di concrezioni. Nelle zone alte della grotta invece, diversi punti contrassegnati come “camini” nel rilievo, quindi potenzialmente interessanti, risultano sezioni appartenenti ad un medesimo canyon fossile parzialmente collassato e che occasionalmente si slarga, senza dar luogo a possibili prosecuzioni. Espugnato quindi il Castello, senza eclatanti risultati, ci si dedica interamente alla vicinissima Grotta del Coralupo.

Qui controlliamo un pozzo da 8 m proprio in fondo alla prima sala, probabilmente uno dei luoghi meno “approfonditi” dal punto di vista esplorativo essendo appena pochi metri dopo il grande ed affascinante portale di ingresso della grotta. Al posto che scendere il P8, stando alti lungo il meandro, notiamo un laminatoio sospeso, con pavimento in terra, che prosegue verso il nero e da cui passa tantissima aria. Lo scavo è molto facile, tanto che alla fine si opta per concentrarsi su questo. Bastano quattro uscite sotto al gelido vento per aprire il passaggio e strisciare fino ad un pozzetto da 4 m, sceso in libera, che porta finalmente in ambienti più vasti e interessanti.

Questo nuovo ramo (chiamato “Meandro della Faina”), si sviluppa lungo un alto canyon solcato da un corso d’acqua. Il pavimento è costituito da lamine di concrezione carbonatica, sabbia e piccoli ciottoli. Verso monte, il meandro prosegue per pochi metri (in alto si ricongiunge con il laminatoio che abbiamo scavato dove il pavimento è sfondato) e termina su un passaggio molto stretto che si affaccia per contatto visivo sul fondo del P8, lasciato inizialmente alle nostre spalle. Sul fondo del P8 si intravede il torrente che scorre in una nicchia di crollo, e a monte un arrivo laterale con un rivolo d’acqua. Dopo aver effettuato il rilievo topografico di questi nuovi ambienti, ci rendiamo conto che questo arrivo secondario è con buona probabilità quello proveniente dalla Grotta M. Loubens, il cui fondo è situato pochissimi metri alle spalle del pozzo.

Venendo invece alla zona a valle, il collettore appena scoperto si infila in una bassissima galleria ellittica (larga poco meno di 1 m ed alta tra i 10 e 15 cm), impercorribile e con pochissima aria. Sulla destra un accenno di meandrino/fessura anch’esso stretto e senza possibilità di proseguire. Proprio alla base del P4 infine, notiamo un arrivo laterale fossile costituito da un meandro interamente ricoperto da infiorescenze gessose, dove transita il grosso dell’aria. Anche qui, grazie all’ausilio dei rilievi topografici, scopriamo che la Grotta il Castello, in particolare un terrazzo pensile sul pozzo che porta al fondo, è proprio di fianco a dove ci troviamo: circa 5-6 m di distanza dovrebbero intercorrere tra le due cavità.

Animati da questa scoperta, nonostante le possibilità di allargare il meandro siano poco accattivanti date le scarse dimensioni, si è organizzata un’uscita parallela con due squadre, una in Coralupo e l’altra al Castello. Muniti di radiotrasmittenti amatoriali del Capitano (Nevio Preti), che ovviamente non hanno funzionato, siamo riusciti a sentirci con urla da ambo le parti. Effettivamente la distanza sulla carta deve essere grossomodo verosimile. Le voci dei compagni in Coralupi provenivano proprio dalla sommità del terrazzo sospeso che si affaccia sul pozzo terminale.

Per cercare di capire ancora meglio il reticolo di circolazione delle acque sotterranee della zona, sono state effettuate delle colorazioni con fluoresceina sodica al P26 sotto la Sala delle Radici, che hanno dato esiti positivi al corso d’acqua presente nel Meandro della Faina, e successivamente al collettore che scorre sul fondo del canyon della Grotta Pelagalli, aggiungendo altri tasselli alla comprensione speleogenetica del sistema carsico centrale della Dolina dell’Inferno. Esplorativamente parlando, esso presenta ad oggi le maggiori potenzialità in termini di “metri inesplorati”, dalla Coralupo alla risorgente. A differenza del vicino sistema Ronzana-Farneto (il più importante e sviluppato dell’area), qui il collettore ha sviluppato gallerie meandriformi dalle morfologie a “mensola”, con altezze che spesso superano i 30 m.

Le esplorazioni si sono quindi concentrate a valle, nella Grotta Pelagalli, dove abbiamo risalito il meandro verso monte, sopra alla galleria terminale sifonante, fino a percorrere circa 80 m di canyon. Questa zona fossile molto labirintica e stretta prosegue con segni di precedenti passaggi (nerofumo e chiodi a pressione) fino ad uno slargo, raggiunto dopo un passaggio chiave in verticale forzato senza imbrago e casco. Sul pavimento di questo vasto meandro è presente un laghetto di discrete dimensioni, alimentato da un rivolo effimero proveniente da una colata calcitica giallastra che chiude le speranze di prosecuzioni agevoli.  Tutto il ramo non era presente nei vecchi rilievi, e l’unica persona che apparentemente si ricorda del luogo è Graziano Agolini (Ago), a cui è stato quindi dedicato il ramo con un bel gioco di parole (“Meandro del L’Ago”). Qui, il punto più a monte della grotta, è stata effettuata una risalita in artificiale fino a raggiungere una finestra e sopra di essa la porzione sommitale del meandro, che purtroppo non lascia intendere prosecuzioni.

Centinaia di metri di ignoto attendono le luci degli speleologi. Bisogna solo essere determinati, e avere una buona sopportazione dello stretto.

Articolo completo su Sottoterra 148 (2019), a cura di L. Pisani

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